Premessa

Sono tanti anni che mi dedico a sgambettare su e giù per montagne e montagnette. Solo per un decennio non l’ho fatto, il mio decennio buio, in cui mi arrampicavo per altri pendii, che erano più abissi dell’anima. Ma fin da bambino, grazie ai miei genitori, ho avuto la fortuna di potermi innamorare di quell’aria e quelle linee, che le vicine, dolci e allo stesso tempo severe Alpi, donano a chi ci sale, o meglio a chi ci entra. E quando, vittorioso, fuoriuscii dagli abissi, la montagna mi richiamò a sé, con tutta la sua forza, saggezza e splendore.
 
Tanti amici e conoscenti mi chiamano “Ue, montanaro”, perché le mie foto sono quasi sempre scattate fra i monti delle mie Prealpi varesine, o da qualche altra montagna che in particolar modo d’estate ho la gioia di mi visitare e amare. Eppure, non ero mai stato lassù, fra quelle vette bianche anche per lo sguardo a caccia di un pensiero d’aria fresca, che cerca d’inspirare lontano, fra la canicola padana nella sua estate africo-zanzarica.

Inizia l’avventura

Poi, per una di quelle strane sincronicità e dopo tanti pensieri di curiosità, respinti da altrettanti pensieri di paura che concludevano con un “Non me la sento”, anche questa chiamata mi ha raggiunto. Perché quelle montagne sono bellissime da guardare, ma al primo refolo di possibilità di salirci, armati di imbrago, piccozza, corde, casco, ramponi e una borraccia da 1 litro che lassù pesa come 5… eh beh, un po’ la voglia è facile che ti passi, mentre è la paura a farla franca. Dopo giorni di avvicinamento, durante i quali ho lasciato alle forti ansie gli spazi delle mie consuete passeggiate serali nella dolce campagna vicino a casa; mentre osservavo da lì il Rosa, il suo gruppo di vette maestose che mai come in quelle sera mi apparivano vicine e burbere, a muso duro di fronte a me. Dopo questi giorni ho detto a mia moglie, confidandomi “Ok, quello che potevo affrontare qui l’ho affrontato. Ora devo essere lassù.”

L’ascesa

E il giorno arriva, con la sua alba che quasi lo ignora, ma esci di casa e sei partito. Iniziando un’esperienza unica da vivere… a partire dal lunghissimo e veracemente impervio sentiero che collega i 2.673 metri del Colle Bettaforca ai 3.585 del rifugio Quintino Sella (che è già di per sé un’impresa che richiede forza e capacità di starci sulle montagne); per arrivare alla notte insonne (per tutti), che a quelle altezze dormire non è roba da poco; fino all’alzata (ché sveglia non si può chiamare) alle 03.40 con una frugale colazione per via del mal di testa; e poi un “vestirsi” che è tutto un programma, un po’ dentro e un po’ fuori a metter corde e ramponi con un vento che attanaglia le dita. E una sfida che ti chiama, dicendoti “Ci sei eh? Bene, ora parti e vediamo se ci vedremo anche lassù.”
 
La salita è meravigliosa. Il corpo mi sostiene avendolo ben allenato con numerose sgambettate di giorni, mesi e anni prima. Il fiato si fa corto come una formica appena acceleri di un niente il passo. E allora su, con calma, legato al mio amico e nuovo maestro di montagna. Le torce frontali fanno luce per camminare, mentre i riflessi di un’alba che ancora non c’è, risvegliano i monti, con la neve che riesce già ad agguantarli. Andiamo su, si fa fatica ed è tutto nuovo per me, non so davvero ad ogni passo cosa mi aspetta. Mi sembra di entrare in un pianeta alieno. Ma vado, anzi andiamo. E piano piano passiamo avanti ad alcune cordate trovandoci un po’ isolati rispetto agli altri. Fa freddo, però lo sforzo scalda. Si arriva, dopo un ripido pendio in due tratti a zig zag che ci spara ormai quasi a 4.000 metri, finalmente in cresta. La cresta che va e va, fino ad essere la cima del Castore. Il sole inizia ad affacciarsi filtrato dalle altre imponenti cime che sono proprio lì, i due Liskamm Orientale e Occidentale, serissimi, come a voler fare il più netto contrasto possibile con il pianoro del ghiacciaio del Felik da cui sbucano bucando il cielo. Ed eccola, dopo non molto, la Punta Felik, i miei primi 4.000. Ma via, si va dopo brevissime soste per riprendere fiato, perché in montagna Fare Presto (non correre) è sinonimo di Sicurezza. Mi cade la borraccia, sfilandosi accidentalmente dallo zaino, e scivolando giù da un pendio. Dico “Attenti!” a quelli sotto, che la osservano prendere una traiettoria diretta verso la Svizzera… e poi si ferma, in un modo che a tutti (dopo ce lo siamo detti) è sembrato impossibile. Un ragazzo, di una gentilezza che forse solo lassù trovi, mi urla, te la prendo io. Volevo poi offrirgli ripetutamente una birra o altro in rifugio, ma con un sorriso davvero bello, pulito come la neve, mi ha risposto “No, è il minimo che potevo fare. Ci mancherebbe.”
 

Un tratto impegnativo nell’ascesa verso il Colle del Felik e da lì verso il Castore

 
Ultimi sali e scendi in cresta, compresi due passaggi da brivido, che non mi aspettavo. Lì, in pochi secondi, fai i conti con paure che parlano di millenni e di storie personali o famigliari, di libri letti, musiche ascoltate e di brividi e pianti che hanno solcato la vita non solo tua, ma di tutti. E capisci che ognuno vive già quei 4.000, senza dover fare un metro per salire lassù, perché lassù è già dentro. E la montagna mi porta in vetta, insieme a Roberto, facendoci un regalo meraviglioso: chi era arrivato prima l’abbiamo incrociato a poche decine di metri dalla vetta, cedendoci il passo sulla cresta (azioni che richiedono grandissima concentrazione) e chi è prima di noi è rimasto un po’ distanziato: e ci troviamo soli, per venti minuti, sulla Vetta del Castore.
Di questo non si può dire niente che descriva sensazioni e sentimenti. Perché ti accorgi subito quando sei lì, lassù, che lì tutto è silenzio; lì tutto è vita elementare. E che i tuoi pensieri, le tue menate, le tue aspirazioni e tutte le tue esperienze, qui stanno zitte, in segno di rispetto per così tanta grandezza, dal bianco della neve a quello delle nuvole, un bianco che riflette tutta la luce, tutta la vita che c’è.
Lì ti puoi abbracciare, puoi pensare al massimo “Sì, sono qui, adesso”.

Conclusione

Oggi, solo da oggi, posso dire di esserci stato, di esserci riuscito, di aver affrontato timori profondi come i crepacci, azioni aeree come quel piccolo tratto della lunga cresta che porta lassù, al Castore, e ti chiede di stare su, di stare in equilibrio, perché la vita si affranca ad esso; quella interiore come quella esteriore. A cercarlo sempre quel posto, anche quando tutto il resto ti chiama giù, quel lassù.
 
 
FINE
 
La Punta Castore è a 4.226 mt e fa parte del maestoso Gruppo del Rosa, il quale comprende la Cima Dufour a 4.634 mt sul livello del mare (la seconda vetta delle Alpi dopo il Bianco).
 

Ringraziamenti (molto sentiti)

Questo racconto è tutta colpa del mio amico Caccia, col quale ho suonato pochi giorni fa e mi ha chiesto “Matteuzzo, voglio il racconto” (eccolo Caccia, spero ti sia piaciuto).
Ed è ancor più colpa del mio nuovo maestro di montagna e caro amico Robi, che mi ha detto quel giorno “Se vuoi ti porto al Castore”. Mi hai fatto sentire sicuro, capace e felice per tutti quei chilometri nel nuovo. Grazie infinite.
L’ultimo grazie, con particolare emozione, alla montagna, che sia a 1.000 come a 4.000 metri, passando per i pascoli mozzafiato dei 2.000. Perché la mia esperienza non ha niente di così altisonante (ormai sono tantissimi che conquistano queste vette, fra cui ho potuto vedere numerosissime ragazze e anche diverse persone non proprio giovincelle!), niente di così pazzesco e sbalorditivo. Però, già prima di partire, sapevo bene che la grandezza si misura dentro e non fuori. Per me, per quel “dentro di me”, lo è stata davvero un’impresa pazzesca e sbalorditiva, oltre che un vero e proprio viaggio dentro e fuori di me. E questo racconto vuole, come una musica, portarvi con semplicità qualcosa di utile da ascoltare dentro di voi. Perché le cose che vale la pena di vivere davvero e per scelta, sono quelle che poi ci rendono più bravi ad amare tutto, e a trovare il grande nel piccolo, le parole nel silenzio.
Ora posso tornare a godermi la mia campagna e le mie piccole montagne, con l’espansione che mi ha donato andare per la prima volta (e di certo non ultima) lassù